Un Gioioso Ordine Formale

2013

Robert Gligorov gioca anche quando fa sul serio. E, viceversa, prende qualsiasi gioco terribilmente sul serio. Non è, la sua, quell’attitudine banalmente ludica, o par- aludica, che ha attraversato e attraversa tanta parte dell’arte contemporanea (e, più in generale, della società dello spettacolo in tutte le sue forme e manifestazioni), ma, al contrario, un atteggiamento che potremmo definire di decostruzione e ricostruzione delle strutture invisibili e sottili che stanno alla base della nostra visione e del nostro immaginario (artistico e non solo), in una chiave di con- tinuo ribaltamento di significati, di capovol- gimento di ruoli e di riferimenti semantici e identitari, di slittamento continuo dei para- metri con cui siamo abituati a conoscere e vedere il mondo.

Attraverso l’uso calibrato e attentamente controllato dell’ironia - nel suo significato etimologico ed originario di dissimulazione dell’uso ordinario del linguaggio -, Gligorov ridà senso, metafisicamente, al mondo, in un contesto dove il mondo stesso sembra aver da tempo perso e senso (in termini escato- logici) e buon senso, in termini di valori e codici etici (ed estetici) minimi e quotidiani. Non ci sono afflati ideologici né visioni salvi- fiche del mondo, nell’opera parcellizzata e stilisticamente diversificata, e tuttavia straor- dinariamente unitaria e coerente, del me- todico e controllatissimo sciamano Robert Gligorov nei confronti del reale: c’è, semmai, una diabolica freddezza da entomologo, un’astuta e chirurgica determinazione nel voler svelare le complesse mistificazioni di un reale che sempre più rischia di sfuggirci di mano, via via che crediamo di averlo com- preso e razionalizzato.

Così, se, oltre cinquant’anni fa, Pinot Gal- lizio invocava la Pittura Industriale come antidoto e profezia di una nuova era in cui l’arte di tutti e per tutti, meccanizzata e ven- duta un tanto al metro, avrebbe distrutto l’elitarismo della creazione solitaria e al contempo devalorizzato l’opera come feticcio artistico per pochi, oggi Gligorov, scevro da ogni sovrastuttura politico-ideologica, ne riprende (inconsciamente) il metodo, creando una grande opera-pizza (sig- nificativamente intitolata, alla napoletana, Accat- tataville), collezionabile a fette - come i milioni e milioni di tranci di pizza, sandwich e coni gelati venduti quotidianamente ai turisti sulle riviere e a bordo piscina - creando al contempo la prima opera smerciabile, programmaticamente, al det- taglio (parodia e metafora dell’inevitabile mercifi- cazione di qualsiasi forma d’arte, anche la più tras- gressiva e apparentemente irriducibile a qualsiasi compromesso col mercato), ma anche la prima opera che è sì realista, anzi apparentemente iper- realista, ma nello stesso tempo anche completa- mente astratta - poiché se l’opera-pizza, vista nella sua interezza, è riconoscibile in quanto tale, il “trancio” che il collezionista eventualmente si ag- giudicherà appare, come per uno strano gioco di prestigio, assolutamente e compiutamente as- tratto: o meglio, un’allegoria stessa dell’astrazione, se non addirittura dello stesso fare artistico, nel suo interminabile alternarsi di tendenza alla rappre- sentazione e pratica pittorica slegata da qualsiasi volontà di mimesi del reale.

Analogamente, le sue tavolozze di colore curiosa- mente trasformate, nel corso dello stesso quadro, in una rigorosa scansione di geometriche strisce verticali di colore (Blob’n Stripes), appaiono in realtà, anch’esse, null’altro che un condensato simbolico della pratica pittorica tout court: lad- dove il gioco del mutevole rapporto tra gestualità della tavolozza e rigore della forma rimandano al perenne avvicendamento, nel fare artistico, tra istinto e ragione, tra gestualità e rigore formale, tra tensione compositiva del colore e geometria del segno. Non diversamente si rincorrono, tra disci- plina formale e ambiguità della visione, coaguli di materia pittorica in forma di cono gelato (Melting Ice), carpe mimetiche dipinte (Mimetic Koi), giochi di prestigio in sottilissimo equilibrio tra ricerca di un intransigente e meticoloso ordine formale e con- tinuo slittamento dei significati.

I “sei pezzi facili” di Robert Gligorov, parafrasi del celebre road movie di Bob Rafelson con Jack Ni- cholson nei panni di un giovane pianista alle prese con le sonate di Chopin, sono dunque opere che - come sempre nel lavoro dell’artista macedone - appaiono “facili” (e “balneari”) solo all’apparenza, trovandosi, al contrario - dietro l’apparente leg- gerezza e l’indiscutibile piacevolezza del “pro- dotto finito” - carichi di doppi, tripli, quadrupli sig- nificati intrecciati e sovrapposti, irrinunciabili per comprendere e apprezzare pienamente l’opera. Che lavori con la fotografia, con l’installazione, con la performance o con la pittura, Gligorov sembra non voler tradire il suo assunto di base, che è un in- sieme coerente e geometricamente ineccepibile di idea, forma, materia e pratica impeccabile del fare artistico. “L’idea”, ha dichiarato una volta in un’intervista,“è la base di tutto. La forma è il vestito, rappresenta l’aspetto seduttivo. Il fare è l’energia che si mette nel realizzare la forma e l’idea, per renderle credibili e attuabili”. Ancora una volta, Robert Gligorov ha tenuto fede al suo credo.

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