Lepidoptera

2013

In “Vecchi Versi”, Eugenio Montale, tignoso ragioniere ligure in tardiva competizione linguistica con Gabriele D’Annunzio (uno barocchissimo l’altro ermetico, il primo a disconoscere come maestro il secondo quasi per allontanare da sé ogni sospetto di facile estetismo), traccheggia per una splendida ventina di versi descrivendo la morte di una farfalla che nella sera “fumida”, entrata nella stanza dove la madre del poeta vigila sui nipoti, resta letteralmente folgorata dalla luce. E’ il ricordo di un paesaggio marino crepuscolare, pieno di assonanze e precipitazioni metaforiche, nel quale la comparsa della falena è l’apparizione di un fantasma che lascia di sé definitiva memoria.

“Era un insetto orribile dal becco

aguzzo, gli occhi avvolti come d’una

rossastra fotosfera, al dosso il teschio umano;

e attorno dava se una mano

tentava di ghermirlo un acre sibilo

che agghiacciava.

Batté più volte sordo sulla tavola,

sui vetri ribatté chiusi dal vento,

e da sé ritrovò la via dell’aria,

si perse nelle tenebre…”.

E più oltre:

“Poi tornò la farfalla dentro il nicchio

che chiudeva la lampada, discese

sui giornali del tavolo, scrollò

pazza aliando le carte

e fu per sempre

con le cose che chiudono in un giro

sicuro come il giorno, e la memoria

in sé le cresce, sole vive d’una

vita che disparì sotterra: insieme

coi volti familiari che oggi sperde

non più il sonno ma un’altra noia…”.

Difficile dimenticare il lepidottero scolpito in poche dense parole, il suo aspetto macabro, il verso stridulo, la morte improvvisa per combustione, una specie di suicidio rituale al fine di eternarsi tra le cose e i “volti familiari” che il poeta è destinato a non scordare mai più; difficile non essere fatalmente attratti dall’immagine di chi s’immola a un destino luminoso, irretito dall’oscuro chiarore della fine. Per questa ragione, non si smetterebbe di guardare le “falene” di Alex Folla: una serie di corpi al limite del primordiale disfacimento, nei quali presagiamo gli echi della pittura seicentesca e la spregiudicatezza della contemporaneità.

Gli uomini – ci dice Alex Folla – da un lato hanno perso l’istinto che un tempo garantiva loro la sopravvivenza, dall’altro la tecnica li attrae e poi li irradia, distruggendoli. La Luce artificiale che “immortala” le sue figure, e che al medesimo tempo le evidenzia durature ed effimere (prese nell’istante della caduta), è un abbaglio, una fonte di debole calore che può sostituire solo in modo momentaneo la luce interiore dell’anima, senza però dare consistenza definitiva alla carne. I chiaroscuri traggono le membra dal buio, le fanno vivere, ma ne svelano anche i difetti, la pelle vizza, la vecchiaia che procede e rode le ossa, le vene nelle quali scorre ultima linfa. Non c’è sentimento di pietà, se non residuo, le rughe stravolgono il senso perfino della nudità sovraesposta: eros è sostituito da thanatos, non stanno più insieme

questi due demoni, bensì uno preclude la sussistenza all’altro. Eppure il manto protettivo del bianco, quasi illuminato per albedo, rappresenta il limite invalicabile a uno sprofondamento verso il nero: una sorta di luminescenza a rappresentare un altrove meno buio, una speranza non ancora dismessa.

Alex Folla, dopo le agiografie - suggestive tele preparate a bitume in cui la storia dei santi viene rivista in chiave moderna, pur nella tradizione plastica dei corpi a tratti ripresi con violento realismo nella loro fragilità e vecchiezza – dà un’ulteriore prova di grande capacità compositiva e pittorica. Il segno si è fatto meno didascalico, l’immagine meno scolastica, le sovrapposizioni, in bianco o in rosso, non sembrano facili escamotage da modernista, ma sono funzionali a una ricerca formale che determina uno stile del tutto personale in cui la tecnica non si piega al concetto, semmai lo esalta. Qui sta la forza: un virtuosismo che non scade nel manierismo o nel pittorico, la capacità di essere contemporaneo pur nel solco dei grandi del passato.

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