Visioni Immobili

2011

“Non mostrare tutti i lati delle cose, tieni un margine di indefinito”. Parole essenziali ma lapidarie, con le quali Jean-Luc Godard decide di dare inizio a quella che potremmo definire la storia delle storie, nella quale il grande regista francese vuole raccontare la storia del cinema e dell’uomo attraverso citazioni di film, testi filosofici e poetici, riproduzioni di quadri, foto e ritratti di artisti o scrittori, titoli di romanzi e frammenti musicali.

L’Histoire(s) du cinéma è un modo nuovo di intendere e raccontare la storia, che si avvale di un’infinita quantità di materiale pur mantenendo una precisa entità indefinita. Un lavoro di montaggio di immagini che ci rimandano anche alla ricerca di Laura Giardino, dove come nel caso di Godard avviene una rappresentazione di un mondo e di un periodo storico, o come è stato più volte definito un esperimento di libera associazione, un gesto critico, un poema lineare e non, dove il racconto non è narrazione ma è al contempo un succedersi di eventi e assenza di narrazione.

Le opere Laura Giardino sono fermi immagini, “visioni immobili” volutamente prive di narrazione, bloccate improvvisamente e sospese per sempre tra gli interstizi della tela.

Tutto nasce attraverso l’attento sguardo, l’indagine di numerose riviste, film, il mondo della pubblicità, cartoline e fotografie non solo reperite nei luoghi più disparati, ma utilizzando il computer, “navigando” e immergendosi tra le milioni di immagini che la rete ci mette a disposizione.

La scelta dei personaggi e quindi delle storie che da li a poco andranno a comporre l’opera, sono mediate da un mondo che potremmo in parte indicare come vintage, che prende spunto dalla fotografia, dal cinema e dal continuo e quasi compulsivo riprodurre fotocopie da parte dell’artista, o meglio dall’elaborazione prima digitale e quindi cartacea dei soggetti più disparati, un mondo mutato in una surreale dimensione verosimilmente irrazionale.

Il racconto qui non esiste più, si è disgregato per sempre come in un film dove il finale è in dissolvenza, dove la storia ha lasciato il posto e il tempo ad un’unica immagine; essa si è come bloccata, “incastonata” nella mente di chi osserva, producendo un fermo immagine e allontanandosi definitivamente da ciò che era solo un istante prima. Lo still ha preso il soppravvento sul movimento, sulla sequenza, divenendo il protagonista della scena, che adesso è lasciata volutamente dall’artista alla libera interpretazione del fruitore. Le opere apparentemente estrapolate dal contesto originale, da dove hanno avuto origine, appaiono adesso agli occhi di chi le osserva, come conturbanti attimi rubati ad una storia predefinita ed ora liberi di inerpicarsi tra gli occhi e nelle menti, ansiosi di non essere giudicati o preventivamente interpretati ma di esortarne l’autonoma immaginazione.

“Spesso durante la giornata mi capita di “fermare l’immagine” e che questa si stacchi da tutto il resto, si riveli come qualcos’altro e si riconduca a un pensiero, un’idea, che sia l’inizio di una riflessione uno studio o una fantasia: è questo che vorrei restituire. Vedere la complessità dietro le apparenze”. Un libero vagare, anzi un libero pensare, ferve e si anima negli occhi di Laura Giardino, che con queste parole riesce a riportarci a quell’istante in cui la creazione non è ancora esplicitamente tale ma in fase embrionale nelle viscere dell’artista stessa; quando appunto tutto scorre inevitabilmente, irrefrenabilmente ed invece c’è chi osserva e quindi interpreta il reale attraverso piani irreali, che consento visioni alternative alla consuetudine.

Unici piani sequenza apparentemente tratti da ambientazioni di film noir, dove i neri marcati e volutamente sfumati contrastano con la luce e con le immagini dettagliate dei protagonisti della scena. Figure spesso ambigue, eccentriche o misteriose, tra l’inquietante e l’ironico, che ci consentono tuttavia di addentraci nel mondo dell’imprevedibile, della magia dell’improvvisazione e della libera espressione tipiche della Nouvelle Vague, consentendoci di comprenderne non solo l’aspetto sociale, ma anche di spingerci all’interno della loro dimensione più recondita ed intimamente psicologica.

Eccoci così avviluppati e proiettati dentro questi fotogrammi, elementi pittorici utilizzati e resi in modo tale, che il risultato finale si avvicini sensibilmente al mondo dell’istantanea: uno scatto che blocca l’attimo evanescente. Deflagra quell’impercettibile lampo che attraversa tutte le opere della Giardino, illuminandone alcune zone, definendone e facendone risaltare solitamente uno o più soggetti, che poi divengono i protagonisti della scena e lasciandone volutamente indefinite altre. Osservando ancora più attentamente ci si inoltra anche in soggetti, che frequentemente hanno il volto oscurato o nascosto tra la penombra, come avvolti da un interminabile silenzio che tutto attenua, persone che serbano nel loro intrinseco un segreto più forte e prezioso di qualsiasi individualità.

Quello che potremmo definire uno scontro tra identità e alterità, ci riporta con il pensiero a Ludwing Wittgenstein, esattamente all’opera Ricerche filosofiche, in cui sottolinea come un elemento, un soggetto pur rimanendo lo stesso può essere visto e quindi interpretato diversamente, “un’ appropriarsi” appunto di nuova o differente identità. Avvertire, percepire in modo differente, questo ci vuole stimolare a fare la Giardino con le sue opere: opporsi al dato oggettivo prestabilito o peggio ancora sancito come l’unico modo di leggere il mondo.

Tutto sembra ambiguo, nulla è dato come assodato, si rimane perennemente inabissati in un’esperienza che potremmo definire della difformità dall’esistente, che fino a quel momento abbiamo constato essere l’unica esperienza sensitiva.

È proprio Wittgenstein che apre le porte a un trapasso da un “vedere come”, che presuppone un processo di riconoscimento tra ciò che già fa parte della nostra esperienza, verso un passaggio ad un “vedere così”, che poi diverrà un “vedere qualcosa”. Una prerogativa insita anche nel pensiero di Laura Giardino, che non si dirige nel campo dell’incondizionato ed assoluto surreale, ma mantiene un vincolo con il reale, che consente contemporaneamente di oltrepassare l’ostacolo visivo, spaziando nella differenza del pensiero, pur non tralasciando il senso del tangibile.

La priorità della Giardino è la partecipazione diretta con il fruitore, non solo come osservatore ma come diretto interprete della processo creativo, riconducendoci così al significato della famosa conferenza tenuta da Marcel Duchamp nel 1957.

Sembra infatti essenziale per la compiutezza di questi quadri, la complicità creativa dello spettatore per mezzo di quella che il maestro francese definisce “coefficiente d’arte”: che è la differenza tra quel che l’artista voleva esprimere e che invece ha effettivamente espresso e che spetta appunto a chi guarda, apportando così il suo contributo imprescindibile nell’opera d’arte.

Inaspettatamente il tempo ha frenato il suo scorrere e l’azione si è interrotta, la fissità ha preso il soppravvento, dando vita e facendo emergere un aspetto silenzioso, solitamente snobbato, bypassato o sul quale non conviene soffermarsi a causa dei pericoli e delle crepe che potrebbe provocare sulle nostre effimere certezze o fragili e labili menti. L’invito che la Giardino ci fa recapitare è la proposta al dubbio, a voltare la testa, farla ruotare in modo da acquisire una visione a trecentosessanta gradi, finché tutto intorno non inizierà a girare vertiginosamente, perdendo così quel fittizio equilibrio che ci consentiva di rimanere saldi per terra. La staticità della sicurezza è svanita, ma ora è possibile finalmente abbandonare le paure ed abbracciare un’idea di vuoto apparente, che si rivela invece essere un vortice provvidenziale per imparare a pensare.

Alberto Mattia Martini

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