Superman è morto

2014

Non ci sono più i supereroi di una volta. 

Sì, un tempo – un tempo – i supereroi esistevano davvero. Era un tempo in cui essi disponevano di pochi, elementari, ma quantomai pratici superpoteri: volare, saltare molto lontano, allungarsi, farsi d’acciaio, diventare trasparenti, e altre bagatelle del genere. Oggi i videogiochi, i film, le serie tv, tutte le forme integrate del divertimento ipertecnologicizzato e diffuso sono attraversate dalla più vasta sequenza di superpoteri diffusi di cui si possa immaginare: giacché a ciascuno, in qualsiasi videogioco del mondo, è oggi lecito ammazzare centinaia di persone al secondo, guidare macchine o altri ordigni o mezzi ambulanti o volanti in qualsiasi situazione possibile e immaginabile in mezzo a incendi, inondazioni, devastazioni, guerre, e poi tamponare auto, buttare giù pali, sfondare vetrine, andare a sbattere, capottare, fare giravolte, rimettersi in piedi, superare cavalcavia e ponti e fiumi, proiettarsi ovunque nello spazio e nel mondo senza alcuna paura di farsi male o morire, e anche quando si dovesse infine morire, schiacciare un bottone sulla consolle o sul joystick e tornare a vivere come se niente fosse, e ricominciare a giocare. 

E non è forse questo, esattamente, il paradigma dell’incarnazione di chiunque di noi in un Supereroe?

Se Warhol aveva predetto a ciascuno il diritto ai famosi 15 minuti di celebrità, non era però arrivato a predire ciò che avremmo sorprendentemente ottenuto in questo scorcio di nuovo millennio: il diritto a possedere superpoteri (virtuali) in ogni istante del nostro tempo. Tra gli altri, possedendo anche, a buonissimo mercato, quello dell’ubiquità: non siamo forse ubiqui e connessi e raggiungibili a chiunque in qualunque momento della nostra vita, grazie alle decine e decine di social network che ci collegano “in tempo reale” (come si diceva un tempo) ininterrottamente nel corso della giornata all’intero globo terracqueo?

Un tempo, i supereroi erano invincibili, certo. Ma a che prezzo! Anch’essi soffrivano, avevano sofferto in gioventù, erano solitari, nevrotici, un po’ psicotici, e a volte anche demoralizzati e depressi. Come dimenticare la svolta impressa da Frank Miller con il suo straordinario Ritorno del cavaliere oscuro? Prima d’allora, è vero, i fumetti di supereroi avevano dovuto accontentarsi – per dirla con le parole di uno che se ne intende, Alan Moore – “dei soliti imbecilli tutti muscoli che sputano le loro battute imbecilli e tronfie”. Poi è venuto il Bruce Wayne angosciato, invecchiato, semialcolizzato e depresso di Miller, è venuto il Batman oggetto di polemiche e di feroci dibattiti nei teatrini televisivi, accusato di essere un fanatico fascista dalla stampa progressista, è venuta la Gotham City  “città oscura”, in perenne decadenza, popolata di bande di strada composte di fanatici e psicopatici, di cui  Blade Runner aveva già dato, pochi anni prima, un saggio quantomai eloquente. E da allora tutto è cambiato.

Ma anche allora – i supereroi restavano pur sempre qualcosa. Esistevano ancora. Messi in crisi, detronizzati, degradati, impasticcati – e tuttavia (r)esistevano.

Negli stessi anni (siamo alla metà degli anni Ottanta) lo stesso Alan Moore aveva cominciato a decostruire, assieme a Dave Gibbons, con un’altra serie che passerà alla storia (Watchmen), l’archetipo del Supereroe: prima che la Pixar ne facesse una geniale e divertente parodia nei suoi Incredibili, Moore aveva messo i supereroi dell’era postmoderna di fronte a un problema di credibilità: essi stessi messi in discussione – come tutto il castello di valori su cui si fondavano non solo le società tradizionali, ma anche quelle nate dalle rivoluzioni democratiche e moderne –, i “vendicatori mascherati” di Watchmen erano stati ributtati nel ciclo della banalità del quotidiano: travolti dalle polemiche sulla legittimità del loro ruolo, divisi al loro interno, privati finanche di qualsivoglia superpotere, ridotti ad essere null’altro che ”malfermi, eccentrici ed inetti veterani”, essi erano, alla fin fine, ritornati umani, troppo umani: simbolo dell’impossibilità, per lo spettatore dell’era del postmodernismo avanzato, di sperare più in alcuna catarsi. 

Umberto Eco ha descritto bene, nel suo Superuomo di massa, i meccanismi consolatori della creazione del Superuomo, prima ancora che al cinema e nei fumetti, nella letteratura d’evasione: “Il Superuomo”, ha scritto, “è la molla necessaria per il buon funzionamento di un meccanismo consolatorio; rende immediati e impensabili gli scioglimenti dei drammi, consola subito e consola meglio”. La chiave è quella della consolazione, dunque dell’ordine (ri)stabilito: “Il lettore è consolato”, scrive, “sia perché accadono centinaia di cose mirabili, sia perché queste cose non alterano il moto ondoso della realtà. Il mare continua a scorrere, salvo che per un momento si è pianto, gioito, sofferto e goduto. Il libro fa scattare una serie di meccanismi gratificatori di cui il più completo e consolante è il fatto che tutto rimane in ordine”.

Con gli anni Ottanta e Novanta, anche questo meccanismo consolatorio si è pian piano e fatalmente sgretolato. La catarsi – la catarsi agognata e sognata da qualunque lettore e spettatore di romanzi e film popolari – è sparita dall’orizzonte della cultura di largo consumo. 

Non c’è più possibilità di sperare in alcuna catarsi, in alcun deus ex machina che ci salvi dalla catastrofe, nell’era del postmoderno avanzato. Il mondo, gli intrecci narrativi del mondo, ormai incredibilmente mescolatisi tra loro come in un’eterna e straordinaria meta-fiction di cui noi stessi siamo i protagonisti, i registi e gli autori, hanno perso qualunque possibilità di essere risolti, e di tornare a scorrere in modo armonico. I supereroi sono ormai tutti morti, le loro immagini sono rimaste solo, con il metro deformante della nostalgia, riflesse nelle immagini degli artisti, nei costumi esagerati e ridondanti dei cosplayers, e in pellicole piene di effetti speciali cui nessuno crede più realmente.

Forse sono stati proprio loro, i supereroi malfermi e nevrotici di Moore e di Miller, ad aprire la strada all’unica alternativa possibile nell’era del narcisismo autistico diffuso, della “presentificazione eterna” del mondo e della sua finzionalizzazione diffusa oltre ogni possibile forma d’immaginazione: il sostituire noi stessi col protagonista eroico, o supereroico, della fiction. Il divenire, noi tutti, quando e come vogliamo, supereroi. Basta provarci: attaccare una consolle, un joystick, e il gioco è fatto. Senza più vere emozioni, senza pianti, dolori, paure, e gioie consolatrici a fine partita. Solo intreccio, puro intreccio: salti, scontri, spari, colpi di scena. E al centro, noi – l’ultimo supereroe possibile, per una società che ha via via abbattuto tutti i suoi idoli.

Parafrasando Brecht, potremmo ben dire che non c’è più bisogno di (super)eroi, nella società della fiction avanzata, dove ogni giorno ciascuno di noi crea, a suo piacimento, l’ultima puntata della sua fiction personale, la sua versione addomesticata e spettacolarizzata della sua stessa vita, per il suo personale pubblico di Facebook, o di Instagram, o di ogni altro social network che la tecnologia sia in grado di offrirci, dove l’unico eroe da celebrare è rimasto il nostro stesso ego, il nostro “io” bombardato e nevrotico, ultimo semidio del quale siamo finiti per venerare l’effige, in assenza d’altri eroi o dèi, nel nostro personale pantheon domestico. L’unico Supereroe di cui possiamo disporre siamo noi stessi, con le nostre nevrosi, le nostre speranze e le nostre paure, ultima arma rimastaci – col nostro corpo, cui dedichiamo di nuovo una cura millimetrica e attenta al limite dell’ossessivo –, al rassegnarsi alla fatale caduta di tutti gli idoli.

No, non ci sono più supereroi, nel mondo, né potranno mai più tornare a solcare le scene coi loro stracci variopinti. Superman è morto, Batman è da tempo in cura dagli psichiatri, e anche SuperPippo, da qualche tempo, ha smesso di mangiare troppe noccioline.

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